Seleziona una pagina

Diario di viaggio. Berlino.

Nonostante sia già ritornata a casa da ben due lunghi giorni, sento ora il bisogno di ricordare questo meraviglioso viaggio, per riassaporarlo e comprenderlo, non più immersa in quel vortice di emozioni contrastanti, ma ora al riparo nella mia camera, ora posso lucidamente dare voce alla mia memoria.

Primo giorno. Martedì 28 febbraio.

Oggi a Sachsenhausen c’era molto freddo, pioggia e vento, quasi come se la natura ci volesse avvisare già all’ingresso delle atrocità che vi erano state compiute. Sul cancello la scritta ARBEIT MACHT FREI, come un cartello “attenti al cane”, invitava a non entrare. Mentre stavo in piedi nella piazza dell’appello, con il giaccone, la sciarpa di lana e i risvoltini, pensavo a quelle persone raccontate dalla guida, costrette a 14 ore in piedi, al freddo, con nessuna consolazione in un ritorno ad un albergo caldo, che invece aspettava noi di li a poche ore. Una domanda martellante ed insistente ricorreva nella mia mente: < ma come hanno fatto a resistere?>. Qui lo dico e qui lo nego, io avrei preferito spararmi piuttosto che sopportare tutto questo. Mi dimentico però che molti di loro avevano poco più di 14 anni. Come si può desiderare la morte quando hai un’età che grida speranza, quando non conosci ancora la bellezza della vita e la immagini solo, in un futuro perfetto, dove morte e ingiustizie sarebbero dovute cessare, dove il ricordo avrebbe dovuto impedire il ripetersi degli stessi errori. Invece questo non è bastato e la gente, tra selfie e freddure, ha dimenticato.

È proprio vero, quando entri in luoghi di profondo dolore, se stai in silenzio e tendi l’orecchio in ascolto, ancora lo percepisci quello che è accaduto. Non solo lo percepisci, ma lo provi fisicamente, ti viene quasi da vomitare mentre immagini tutta la sofferenza che è stata inflitta.

Il mondo fuori dalle mura però è sordo, non ha tempo di stare ad ascoltare i morti e per questo, con il suo rumore, li uccide per la seconda volta.

Mi avevano raccontato quindi, la potenza di questi luoghi, ma io, fino ad oggi, non ci avevo mai creduto.

 

Secondo giorno. Mercoledì 29 febbraio.

Devo ammettere di non ricordarmi proprio tutto di questa giornata, un po’ per la distrazione, un po’ per la stanchezza, un po’ per la guida non troppo coinvolgente. Oggi abbiamo fatto un percorso tutto all’italiana, siamo andati a vedere le baracche dove migliaia di soldati italiani sono stati deportati per diventare lavoratori coatti, ovvero schiavi. Durante il viaggio di andata ci hanno chiesto:< Se avreste potuto scegliere tra tornare a casa dalle vostre famiglie come soldato tedesco o rimanere integri nei vostri valori come deportati in Germania cosa avreste risposto?>. Nessuno sul pullman fiatò.

Quello che mi colpì in questa visita fu una scritta, incisa sul muro della cantina della baracca numero 13, usata come rifugio durante i bombardamenti: “ du bist meine und ich bin dein”. Scritta in un tedesco scorretto che ora non ricordo bene e significava, tu sei mia e io sono tuo. Mi ha sorpreso vedere quanta speranza infondevano queste singole parole e quanta forza ci sia voluta per dire NO, io non mi arruolo, non tradisco la mia patria, io resisto. Molti sono morti a causa della loro decisione, molti non sono più tornati ma questo è un pezzo di storia che non viene ricordato, come non fosse mai avvenuto.

I miei ricordi non finiscono qui, come non finì qui la nostra gita. Nei giorni a venire visitammo la città, questa grande metropoli che mi ricorda un vecchio saggio, di quelli dalla faccia stanca e vinta, che però suscitano rispetto e timore sui più giovani, che hanno visto poco e vissuto niente. Una città piena di storia, piena di gente, piena di vita, piena di contrasti per cui tu puoi decidere se amarla totalmente o disprezzarla. In ambo i casi verso di lei potrai provare solo emozioni forti.

Questo è quello che vale la pena di essere ricordato, non per la sua bellezza o per le emozioni che molto silenziosamente se ne andranno, ma come testimonianza di qualcosa che esisteva ed esiste, come monito, perché l’uomo è atroce.