14 Apr 2019
“È una danza meravigliosa piena di profumi e musica”. Emanuele Carubbi racconta la sua grande passione, l’apicoltura.
Un’altra storia di un giovane che vale la pena narrare è quella di Emanuele Carubbi, 23 anni, di Marola.
Mi ha raccontato come una grande passione può nascere nel giro di un anno scolastico e trasformarsi nella propria professione.
Una volta mi han detto che se fai quello che ti piace non lavorerai un singolo giorno della tua vita, forse per Emanuele è proprio così.
Finita la scuola hai deciso di iniziare subito la tua attività, investendoci soldi e tempo. Raccontami un po’ la tua professione.
“La mia attività è l’apicoltura. Non posso definirmi apicoltore professionista perché in questo fantastico mondo ogni anno c’è qualcosa da imparare, qualcosa di nuovo che non si conosceva. Preferisco definirmi un osservatore professionista. Gestisco 150 alveari per produrre e commercializzare un po’ tutti i prodotti dell’alveare: primo fra tutti il miele, ma anche pappa reale, polline e propoli. Tutti rigorosamente biologici. Da quest’anno inizierò anche a produrre regine per venderle ad altri apicoltori. La sede della mia azienda “Agricola Appennino” è a Marola. Per produrre mieli di profumi, sapori e varietà differenti, durante la stagione, porto una parte delle mie cassette a fare “villeggiatura” prima al mare in Liguria, poi in collina in Lunigiana e per finire nel nostro crinale. Durante i periodi invernali e nelle poche pause che l’apicoltura concede coltivo zafferano e ulivi da olio”.
Hai sempre desiderato fare questo lavoro o avevi altre opzioni prima di questa?
“Ho passato diverse voglie lavorative, prima di tutto fare l’archeologo, poi il pompiere, poi studiando a Castelnovo come geometra. L’apicoltore divenne una realtà così per caso. Furono mio padre e mio fratello che, un giorno, decisero di comprare cinque arnie di api per allevarle. Io li aiutavo e li osservavo mentre trafficavano intorno alle api. Senza forse esserne del tutto cosciente mi appassionavo piano piano, finché decisero di cedermi i loro alveari. Quello fu il momento in cui decisi che sarebbe stata la mia vita. Ancora ricordo la smielatura (estrazione del miele prodotto dalle api), il momento più bello in cui si riuniva tutta la famiglia a lavorare. Era diventano un rito annuale”.
Grazie ai tuoi familiari è sbocciata questa tua passione. Ti hanno iniziato loro a questo mestiere, tramite le loro conoscenze ed esperienze, o hai dovuto imparare dalle basi?
“Passando da un semplice hobby a un lavoro, iniziai a frequentare corsi e affiancare apicoltori esperti della zona, che gentilmente mi passavano informazioni e trucchetti preziosi per allevare e gestire il fantastico insetto che è l’ape. Studiando e riempiendo di domande tutti gli apicoltori che conoscevo cominciai ad aumentare il numero di alveari. L’ultimo anno di superiori, i miei compagni di scuola si ricordano ancora di quando arrivavo in classe tutto gonfio per le punture ricevute il giorno prima”.

Emanuele Carubbi
Hai sempre pensato di volere rimanere a lavorare in montagna, o c’è stato un momento in cui saresti voluto partire?
“Mi considero fortunato a essere nato in un posto tanto ricco di umanità e bellezza, per questo ho sempre voluto fortemente rimanere nel “mio” meraviglioso mondo che è l’Appennino. Decidendo di affrontare la stressante fila in macchina per tornare a casa ogni giorno, credo sia già di per sé un piccolo, ma importante gesto, che dimostra di amare un territorio. Sarebbe più facile trasferirsi. Lavorando e vivendo qui, spero di fare la mia parte per sostenere la montagna”.
Quanto, nella tua professione, il territorio ti aiuta nell’andare avanti. C’è possibilità di crescita?
“Mi aiuta perché alzandomi tutte le mattine, guardando fuori dalla finestra, ho un quadro dipinto dal miglior pittore del mondo. Credo non avrei lo stesso entusiasmo se alzandomi vedessi altre case, altri grattacieli, altro grigio. C’è sempre la possibilità di crescere, in tutte le cose. Prima nel piccolo e nel privato, poi nella comunità”.

Motto dell’azienda “Agricola Appennino”
Che consiglio senti di dare a ragazzi che non hanno il coraggio di investire, di iniziare, pensando che i lavori manuali, tradizionali, umili non possano dare soddisfazione o lucro?
“L’apicoltura come tutte le professioni agricole richiede dedizione e sacrificio. Tralasciando gli investimenti economici per iniziare (attrezzatura da laboratorio, arnie, mezzo di trasporto ecc.), un requisito fondamentale è l’amore e la passione per queste attività. Non esistono cartellini da timbrare o ore da svolgere. Una giornata dura spesso anche più delle 8 ore lavorative ed è piena di punture. Spesso devo rinunciare a uscire e divertirmi con gli amici, perché come dico io: quando è stagione bisogna esserci! È un sacrificio”.
“Nonostante ciò – conclude – lo consiglierei, perché regala molte soddisfazioni. Vedere come le api si muovono nonostante tutto, nonostante noi, come si evolvono e trovano soluzioni ai cambiamenti climatici, è qualcosa di imprevedibile e meraviglioso. Passerei le giornate a osservarle entrare e uscire dalla porticina di casa piene di polline. È una danza meravigliosa piena di profumi e musica”.
“È una danza meravigliosa piena di profumi e musica”. Emanuele Carubbi racconta la sua grande passione, l’apicoltura
27 Mar 2019
Ormai da qualche anno il numero di ragazzi che scelgono di proseguire gli studi è aumentato. Dei molti studenti che escono dall’istituto superiore di Castelnovo, la maggior parte decide di andare all’Università.
I più rimangono in regione: Parma, Reggio, Modena, Bologna, qualche eccezione sceglie Milano, Torino e Venezia.
Vi sono tanti motivi per cui scegliere un determinato ateneo: l’indirizzo di corso, il piano di studi, la reputazione dell’Università, la presenza di qualche amico, ma soprattutto la vicinanza a casa. Vivere lontano ha un costo che non tutti possono affrontare e vivere da soli non è così facile e spassoso come ci si aspetta.
Quasi nessuno dei ragazzi che conosco o con cui ho parlato possono considerarsi fuori sede, la maggior parte di noi fa la vita da pendolare, ogni weekend torna a casa a fare rifornimento di cibo e il cambio biancheria.
Nel gergo si dice “fare la settimana corta”, ma può essere altrimenti descritto come un limbo circolare in cui tu vivi un po’ di qua e un po’ di là, sempre con la valigia in mano, e non ti godi questo e neanche quello.
Per tanti il fine settimana è un’ancora di salvezza. Non ci sembra vero di tornare tra i monti, il mangiare pronto, la camera singola, le proprie comodità. Nessun posto è come casa propria. Il fatto è che abbiamo una casa anche a Bologna, Modena, Milano, ma non ci stiamo abbastanza a lungo da poterla sentire come tale.
Da cosa deriva questo bisogno morboso di tornare a casa? Me lo sono chiesta spesso dopo aver incontrato ragazzi provenienti dalla Sardegna, dalla Sicilia, dalla Campania e ascoltato storie di studenti extra-continentali, dal Brasile, dagli Stati Uniti.
Il primo anno è difficile, tutti hanno una voglia matta di rivedere parenti e amici e attendono con ansia le feste. Aria nuova, gente nuova, abitudini nuove, ma col tempo ci si abitua e si impara ad amare anche la città.
L’unica spiegazione che rimane, è che noi ragazzi di montagna la città facciamo proprio fatica a digerirla. A meno che non ci siano altri fattori che non abbiamo calcolato, qualcosa nel modo in cui siamo cresciuti, di cui nessuno a colpa, ma che è insito nella mentalità dei piccoli paesi.
Quando sei abituato a uscire di casa ed essere Beatrice Bramini, figlia di x e y, fidanzata con tizio e con la media del 9, ti senti quasi un nonnulla a passeggiare per Bologna, una faccia tra tante, figlia di boh e con la media del chissenefrega. Sembra tutto troppo grosso e abbiamo bisogno di tornare a casa per ridimensionarci.
Difficile spiegare in poche righe come mai quasi nessuno di noi ragazzi decide di tagliare il cordone ombelicale una volta per tutte, poiché nonostante la voglia di vedere gli amici, i famigliari, il cane, c’è qualcosa in più.
Forse non vogliamo rimanere indietro con i pettegolezzi…
(Beatrice Bramini)
27 Mar 2019
“Le persone ci dicono sempre di sperare che i giovani salveranno il mondo. Ma non sarà così. Semplicemente non c’è abbastanza tempo per aspettare che cresciamo e diventiamo quelli al potere.”
Inizia così il discorso tenuto da Greta Thunberg davanti al presidente della Commissione Europea Juncker.
La sedicenne svedese decise, l’agosto scorso, di saltare la scuola per andare a sedersi davanti alla sede del Parlamento di Stoccolma, chiedendo azioni immediate per far fronte alla crisi climatica in atto. Nel frattempo la sua popolarità è cresciuta portandola sul palco delle Nazioni Unite e di Davos.
Sola, con un cartello in mano, la giovane ha dato vita a un movimento mondiale chiamato “Giovani per il clima”, diffusosi via web.
Il suo esempio ha smosso milioni di studenti da tutto il mondo, che ancora una volta si riuniranno davanti ai municipi delle loro città venerdì 15 marzo, dalle 9 alle 13, per ricordare ai governi che esiste un patto a cui devono attenersi, gli accordi di Parigi sul clima.
“Abbiamo già tutte le informazioni e le soluzioni, dobbiamo solo svegliarci e darci da fare”.
Questo è quello che faremo, svegliarci, e se qualcuno ci dirà che la lezione è più importante, risponderemo che non ha senso studiare se per noi non ci sarà nessun futuro.
Ci restano undici anni per invertire la rotta, secondo un rapporto del comitato Onu sui cambiamenti climatici, altrimenti per la mia generazione sarà troppo tardi, stiamo finendo il tempo a disposizione.
Nel 2078 avrò 80 anni, e quando i miei nipoti mi chiederanno come mai non abbiamo fatto niente quando avremmo potuto, non avrò il coraggio di rispondere.
Si può fare la differenza anche in una piccola realtà come quella del nostro Appennino, perchè non si è mai troppo piccoli per fare qualcosa, come ci ricorda la giovane Greta.
“Stiamo sistemando il vostro caos e non ci fermeremo finché non avremo finito”.
(Beatrice Bramini)
27 Mar 2019
Venerdì 8 marzo 2019. Oggi si festeggiano le donne e in qualità di una di loro mi piacerebbe spendere due parole sulla questione di genere, che ultimamente sembra aver ritrovato il suo vecchio vigore, ripresentandosi come un problema sentito e largamente dibattuto.
Dall’hashtag Me too, lanciato da donne che hanno subito abusi, allo sciopero nazionale dei servizi, che oggi blocca trasporti, scuole e sanità, alle manifestazioni e ai cortei “rosa”.
Per il mondo, oggi è il giorno in cui si regalano mimose e si esce con le amiche. Il tempo ha, a poco a poco, cancellato il senso originario dell’istituzione di questa festa, lasciando dietro di sé solo il lato commerciale e culturale. Perché è usanza che gli uomini facciano sentire importanti le loro donne con una rosa prima e una mimosa poi.
Per altri, come per il movimento “Non una di meno”, il senso rimane quello di un tempo, lottare per i diritti delle donne.
La ricorrenza nasce come riconoscimento delle conquiste fatte dai movimenti femminili dai primi del Novecento fino all’incirca agli anni settanta, periodo in cui verrà riconosciuto l’8 marzo come data simbolica in tutti i paesi. Le donne si unirono per battersi contro lo sfruttamento sul posto di lavoro, la discriminazione sessuale e per il diritto di voto.
Il 1970 è infatti considerato l’anno zero del movimento delle donne in Europa. Per molti e per la storia i movimenti del 68 costituirono un cambiamento culturale forte, una rivoluzione nella rivoluzione. C’era chi lottava contro i poteri forti, la rivolta contro il padre, padrone e patriarca e chi invece lottava per la rivalutazione della madre.
Per altri il 68 fu l’inizio di un lento sgretolarsi dei vecchi valori, dei quali la donna era il fulcro, il focolaio, quali la famiglia. Accusano il 68 di aver creato una figura femminile aggressiva, autoritaria, assetata di riscatto e alla continua ricerca di prove della sua superiorità. Una donna che spaventa l’uomo, che non vuole figli, che non scende a compromessi, che ce la può fare da sola.
Nel 2019 in Italia si può abortire, divorziare, studiare, lavorare, mantenersi da sole, decidere di non sposarsi, ma anche di come vestirsi e di uscire non accompagnate. Le donne nate con tutto questo lo danno per scontato e non potranno mai sentir proprie le cause che hanno mosso le prime femministe.
Come studentessa non mi è mai capitato di sentirmi inferiore per cause sessuali. L’università, ma soprattutto la scuola in generale, penso si possa dire libera da ogni sorta di discriminazione. Anzi alcune statistiche indicano come le ragazze abbiano, tendenzialmente, una media più alta dei loro coetanei e un percorso scolastico più pulito. Per molti di noi quindi il problema non sussiste, poiché non lo hanno mai toccato con mano.
Il fatto che non percepiamo il problema non significa che sia stato risolto. Nonostante gli sforzi di chi ci ha preceduto non siano stati vani, a poco a poco le differenze di genere si sono assottigliate fino a nascondersi in pieghe culturali impercettibili, consuetudini che mai potremmo concepire come segni di disuguaglianza.
Un esempio: ormai da qualche mese sul portale online dell’ateneo di Bologna, accanto al nome di ogni professore, è stato aggiunto l’equivalente femminile “professoressa”. L’Università di Bologna è stata la prima. Le maggiori contestazioni sono arrivate proprio dalle donne, che dopo tanti anni si sono ormai abituate all’appellativo di professore e vedono nel femminile una sorta di diminutivo, come andasse a sminuire la loro professionalità.
Eroe – eroina, gallo – gallina, zar – zarina. D’altra parte la lingua italiana per alcune parole utilizza il diminutivo per formare il femminile.
Quest’esagerata attenzione per la lingua italiana, che porta alcuni a forzature come sindaca, ministra e ingegnera infastidisce molti, che non vedono necessario un cambiamento di prospettiva. Il genere maschile è preso come riferimento per rappresentare la donna, punto e stop.
Altri credono invece sia proprio dal linguaggio che bisogna partire, per poter realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna. Sempre più spesso, entrando in aula, i professori tendono a salutare “Buongiorno ragazzi e ragazze”.
Queste sono le nuove battaglie, e voi cosa ne pensate?
Beatrice Bramini
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