3 Ott 2019
Nonostante il bel tempo che mantiene alte le speranza dei nostalgici di agosto, l’estate sta volgendo al termine. Come ogni anno, da secoli, salutiamo settembre con l’immancabile e ormai radicata fiera di San Michele a Castelnovo ne’ Monti, oggi alla 548° edizione. Per tutti, rappresenta l’ultima occasione di festa, l’evento conclusivo di un’estate tanto intensa quanto calda, un’ultima boccata d’aria prima di aprire definitivamente le porte all’autunno, al freddo, prima del rientro sui banchi, prima della quiete.
Sabato 28, domenica 29 e lunedì 30 settembre Castelnovo si accende di tradizione e divertimento per le strade e le piazze del centro. Il programma, ben consolidato negli anni, rimane quello a cui siamo affezionati. Un giro per le vie del centro a spulciare le nostre bancarelle preferite, uno sguardo alla Mostra mercato dei bovini giù al centro fiera e poi in piazza Gramsci a bere una birra dai “tedeschi”, ovvero dallo stand del comune di Illingen che, insieme a quello di Voreppe, è da anni gemellato con Castelnovo.
Le novità di quest’anno – afferma l’assessore all’ambiente, turismo e commercio Chiara Borghi – sono tutte gastronomiche. La vera risorsa da promuovere è la qualità dei nostri prodotti di montagna. Dal parmigiano reggiano, al vino, ai salumi, ai tortelli, tortellini e cappelletti. In piazza dell’Unità in centro storico, presentiamo quest’anno l’arte della norcineria, ovvero la lavorazione della carne di maiale. In particolare, si potrà assistere alla dimostrazione della cottura dei ciccioli, abbinati al gusto intenso e frizzantino della Spergola, altro prodotto locale. L’idea – ci spiega – deriva dalla recente premiazione da parte dell’Accademia Italiana della cucina di due aziende Felinesi, la salumeria Zanelli e la macelleria Castagnedoli.
Dal salato passiamo a “La dolce piazza” Peretti, dove si terrà un concorso inedito per gli amanti del Cakedesign. La magia del cioccolato si fonde all’abilità di creare torte non solo buone, ma anche belle, che i partecipanti sottoporranno al giudizio dei maestri cioccolatieri.
Una parte a cui tengo molto – prosegue – è lo stand di educazione ambientale promosso da Iren in collaborazione con gli insegnanti dell’istituto comprensivo Bismantova. Unisce educazione e informazione al divertimento della fiera. Il lunedì puliremo insieme, adulti e bambini, le vie del centro dai
rifiuti abbandonati a terra nei giorni precedenti. Vista la crisi ambientale odierna è qualcosa di cui andiamo molto fieri. Piccoli passi.
San Michele (qua ho tolto il continua) è un evento, tra le altre cose, di grande impatto per l’economia montana. Per un paese basato soprattutto sul settore commerciale e gastronomico, il turismo è la primaria fonte di guadagno su cui bisogna investire. Il numero di turisti in Appennino, che conta anche qualche straniero, è aumentato. Gli sforzi di commercianti e ristoratori, come delle associazioni di volontariato, hanno portato i loro frutti, obbligando il comune a regolare gli accessi alla Pietra di Bismantova con parcheggi a pagamento e a organizzare navette gratuite per gli spostamenti. Castelnovo dev’essere vivo – afferma – un paese spento è un paese dove non si lavora.
Le cose da fare sono molte. Siamo montanari, abbiamo i nostri tempi. A piccoli passi ci stiamo abituando al turismo straniero, alle nuove tecnologie (l’app Castelnovo C’entro), alle esigenze alimentari, ad esempio i prodotti celiaci. Stiamo lavorando per avere un programma fisso di eventi che copriranno tutto l’arco dell’anno. A breve avremo l’appalto per la ciclo-pedonale, che inizialmente coprirà il tragitto Castelnovo Vologno, estendendosi in futuro anche per il pezzo di Campolungo e Casale, solitamente molto trafficato.
I progetti sono molti: sono stati ripuliti i sentieri, è stata fatta la cartografia dedicata alla Pietra e il sito web, stiamo facendo un parco archeologico a Campo Pianelli insieme alle scuole medie, l’orto dei frati e l’area museale su all’eremo.
Il nostro sogno – conclude – è di creare un ambiente, pur mantenendolo così raro, pieno di opportunità per quelli che amano stare. Ci auguriamo lo stesso entusiasmo contagi tutti i comuni della montagna, perché invoglino i giovani a investire, amare e credere nel nostro territorio
Beatrice Bramini
29 Ago 2019
La montagna non smette di stupire, giovani talenti spuntano come le primule e questa primavera è arrivata Matilde Briselli a lasciare tutti a bocca aperta.
“Non si è mai troppo piccoli per mettersi in gioco”, questo il messaggio che vuole lanciare Matilde Briselli, 17 anni, di Castelnovo. Anche lei parte della scuderia di Mattia Toni, ormai conosciuto nella zona per aver collaborato con molti altri artisti. Esordisce con “Senza maschere” il 29 marzo sul suo canale YouTube, che ha fatto in pochi giorni più di 1500 ascolti. La canzone, racconta, non era pensata per il pubblico ma come una dedica a mio padre.
Matilde, da cosa è nata la tua passione per il canto?
Da che ho memoria ho sempre avuto questa passione. Ho iniziato alle elementari suonando la chitarra, ma ho smesso dopo 8 anni per concentrarmi sul canto. Due anni fa ho iniziato seriamente a prendere lezioni e ora sono passata alla Scuola Danza Teatro Canto Arcobaleno.
La canzone parla di tuo padre, che rapporto hai con lui?
Con mio padre ho un rapporto strettissimo, siamo molto uniti. Lavoriamo insieme a “La Tana del Lupo”, l’attività di famiglia, per lui mi farei in quattro. Ultimamente stava passando un periodo difficile e quando l’ho visto crollare, sono crollata anche io. Questo mi ha spinto a buttare giù qualche verso della canzone, che inizialmente era destinata solo a lui.
Com’è nata la collaborazione con Mattia Toni e l’idea per il video?
È stato proprio mio padre a spingermi a contattare Mattia per chiedergli di arrangiare la base e il video. Quest’ultimo è suddiviso in tre parti: la prima introduce l’album di fotografie, oggetto centrale e ricorrente per tutto il video. La seconda parte, io che salgo per il campo e arrivo alla cima, simboleggia il raggiungimento dei miei obiettivi. Infine, la terza parte l’abbiamo girata al ristorante, dove ci sono io che canto in mezzo alle persone. Quest’ultima rappresenta la Matilde che ce l’ha fatta, che è riuscita a dire quello che voleva, quello che suo padre le ha insegnato. Sono molto riconoscente, sia a Mattia che a tutti quelli che mi hanno convinto a farlo, perché per arrivare al prodotto finale serve ben più di una bella voce. Inoltre è stato proprio Mattia a consigliarmi di aprire il canale YouTube.
In un paese piccolo come Castelnovo, secondo te, è difficile uscire così allo scoperto?
Se non ci fossero stati amici e famigliari a spronarmi non l’avrei mai fatto. Non è facile sottoporsi ai giudizi della gente, non solo per quanto riguarda le mie capacità canore, ma anche per il contenuto della mia canzone. Mi sono esposta molto. Avevo paura mi giudicassero male, come un’esaltata. Al contrario, mi sono sorpresa di me stessa, non avrei mai pensato che la canzone di una 17 enne potesse piacere anche a persone adulte.
Che progetti hai in cantiere?
Al momento sto scrivendo un’altra canzone su un momento brutto che sto passando io, stavolta in prima persona. Non so bene ancora se uscirà, quando, come, insomma la prendo un po’ come viene.
Sei in quarta superiore, avrai sicuramente tutt’altro a cui pensare, ma hai già qualcosa in programma finita la scuola? Vorresti fare del canto la tua professione?
Ovviamente, se mai mi venisse proposta un’attività inerente al canto, accetterei senza pensare. Sarebbe il mio sogno potermi mantenere con il canto. A dir la verità, non ho ancora pensato a cosa fare dopo le superiori, l’università non è contemplata. Per ora penso al prossimo anno, a far l’esame di maturità e poi si vedrà.
Che consiglio senti di dare ai tuoi coetanei?
Vorrei trasmette l’idea che nonostante viviamo in un paese piccolo, che sembra non darci possibilità, chiunque abbia un sogno può realizzarlo.
10 Ago 2019
Lo scorso dicembre sparisce Maya, cagnolina di quattro anni, la quale verrà ritrovata solo due mesi dopo nel giardino dell’abitazione, morta. Potrebbe sembrare un incidente come altri, se non fosse per le circostanze insolite dell’accaduto. Circostanze identiche a quelle del ritrovamento del precedente cane della famiglia, Achille, che fan pensare non sia solo una macabra coincidenza.
A distanza di quasi un anno, la famiglia rende pubblico l’accaduto.
Il giorno 8 dicembre 2018 a Baiso sparisce Maya, un lagotto romagnolo di quattro anni. La famiglia Montipò era in vacanza e viene informata dell’accaduto solo tre giorni dopo. Una volta a casa iniziano le ricerche, annunci, volantini e una minuziosa ispezione alla recinzione del giardino, per controllare non vi fossero buchi da cui potesse essere scappata. Ma niente.
Passano due mesi. Il primo febbraio, la famiglia riceve una telefonata dalla vicina di casa che, dalla finestra di casa sua, li avvisa di aver visto il cane nel loro giardino. Morto. Il giardino, ricordiamolo, circoscritto da una recinzione immacolata.
Come un déjà-vu, la famiglia ricorda che solo l’anno prima il vecchio cane Achille fu ritrovato morto nelle stesse circostanze. Insospettiti dalla ricorrenza dell’accaduto, decidono di sottoporre il cadavere a un esame autoptico. Escono i risultati. L’autopsia dichiara la morte sopraggiunta per emorragia interna, costole rotte e coaguli di sangue nella zona del cranio. Il veterinario esclude che il cane possa essere stato investito, poiché non avrebbe avuto le forze di ritornare nel recinto. Un recinto perfettamente integro.
Maya è stata quindi brutalmente uccisa a botte.
Alcuni giorni prima del ritrovamento, la figlia Giada racconta di aver avuto un’accesa discussione con un uomo, il quale avrebbe altresì minacciato di uccidere il cane. L’uomo in questione sembra aver più volte espresso apertamente il suo odio verso gli animali, in particolare verso i cani della famiglia, ma non fu mai preso seriamente. Non privi di sospetti, hanno deciso di non renderne pubbliche le credenziali fino alla fine delle indagini, sperando confermino quello di cui già sono sicuri.
“Vogliamo raccontare quello che è successo per far sì che chi ha compiuto questa bestialità, caso mai lo leggesse, possa vergognarsi di quello che ha fatto, se ha un minimo di coscienza!”
29 Lug 2019
Cinque generazioni a confronto.
Noemi ha nove mesi e ancora non lo sa, ma la signora che la tiene tra le braccia ha 93 anni, si chiama Piera, o meglio tutti l’hanno sempre chiamata cosi, ed è la sua trisnonna, la nonna di sua nonna.
A guardarsi intorno, al giorno d’oggi, è un caso eccezionale trovare una famiglia formata da ben cinque generazioni al completo. La gente si sposa tardi (o non si sposa affatto), fa i figli tardi (massimo uno o due) e così i nuclei rimangono piccoli o sparsi, poche persone attorno al tavolo.
La famiglia Donadelli, formata dalla piccola Noemi e i giovani Gloria e Alessandro, può dire di aver battuto un record in ambito familiare, vantando cinque generazioni al completo, tutti da parte della nonna paterna e tutti rigorosamente montanari d’origine, sparsi tra i comuni di Carpineti e Toano. Per non perdersi tra le parentele bisogna fare un po’ di chiarezza. Noemi ha quattro nonni, Loredana e Giuliano da parte di madre e Roberta e Corrado da parte di padre, sei bisnonni, Irene e Alfredo, Dorindo e Maria, Giuseppina e Iside e due trisnonni, Piera e Lino, in tutto 12.
Senza contare fratelli, zii e cugini solo loro – raccontano – fanno fatica a trovarsi per riuscire a scattare una foto tutti assieme. “I pranzi di Natale o l’organizzazione dei tavoli ai matrimoni diventano un vero e proprio lavoro, ma è bellissimo cosi, siamo fortunati”.
Piera e Lino sono insieme da 74 anni, passando dalle nozze d’argento a quelle d’oro a quelle di platino, stanno per esaurire i materiali con cui festeggiare il loro anniversario. I nipoti li descrivono con tanto affetto, la trisnonna una persona elegante e precisa, sempre in ordine, il trisnonno un uomo testardo che ama lo zucchero alla follia. Alla nascita della piccola Noemi vantano ben tre generazioni di nipoti, che vanno dai 55 anni ai 9 mesi, per questo tutti li perdonano quando si scordano qualche nome o se ne dimenticano dietro qualcuno.
“Ogni tanto Lino guarda la bambina confuso e chiede – Chiela? – È la figlia di Alessandro – e lui ancora più confuso risponde – e Alessandro chi è? – e via dicendo”.
Sono i nonni però, o meglio i neo-nonni, a essere letteralmente impazziti per la loro prima nipotina. Le loro mogli li guardano allibite saltellare per la stanza fingendo di essere conigli, solo per riuscire a strappare un sorriso alla piccola Noemi o, dopo aver avuto per anni la fobia degli aghi, andare a prenotarsi un tatuaggio in suo onore. “Non sappiamo più come fare a contenere il loro entusiasmo, ogni giorno vogliono vedere un video di Noemi”.
Gli aneddoti sono tanti, potrebbero stare a raccontarli per ore, e mentre li ascolti non puoi far altro che percepire quanto amore e affetto permea questi ricordi che legano una famiglia tanto grande quanto riunita intorno a questa nuova nascita.
14 Apr 2019
“È una danza meravigliosa piena di profumi e musica”. Emanuele Carubbi racconta la sua grande passione, l’apicoltura.
Un’altra storia di un giovane che vale la pena narrare è quella di Emanuele Carubbi, 23 anni, di Marola.
Mi ha raccontato come una grande passione può nascere nel giro di un anno scolastico e trasformarsi nella propria professione.
Una volta mi han detto che se fai quello che ti piace non lavorerai un singolo giorno della tua vita, forse per Emanuele è proprio così.
Finita la scuola hai deciso di iniziare subito la tua attività, investendoci soldi e tempo. Raccontami un po’ la tua professione.
“La mia attività è l’apicoltura. Non posso definirmi apicoltore professionista perché in questo fantastico mondo ogni anno c’è qualcosa da imparare, qualcosa di nuovo che non si conosceva. Preferisco definirmi un osservatore professionista. Gestisco 150 alveari per produrre e commercializzare un po’ tutti i prodotti dell’alveare: primo fra tutti il miele, ma anche pappa reale, polline e propoli. Tutti rigorosamente biologici. Da quest’anno inizierò anche a produrre regine per venderle ad altri apicoltori. La sede della mia azienda “Agricola Appennino” è a Marola. Per produrre mieli di profumi, sapori e varietà differenti, durante la stagione, porto una parte delle mie cassette a fare “villeggiatura” prima al mare in Liguria, poi in collina in Lunigiana e per finire nel nostro crinale. Durante i periodi invernali e nelle poche pause che l’apicoltura concede coltivo zafferano e ulivi da olio”.
Hai sempre desiderato fare questo lavoro o avevi altre opzioni prima di questa?
“Ho passato diverse voglie lavorative, prima di tutto fare l’archeologo, poi il pompiere, poi studiando a Castelnovo come geometra. L’apicoltore divenne una realtà così per caso. Furono mio padre e mio fratello che, un giorno, decisero di comprare cinque arnie di api per allevarle. Io li aiutavo e li osservavo mentre trafficavano intorno alle api. Senza forse esserne del tutto cosciente mi appassionavo piano piano, finché decisero di cedermi i loro alveari. Quello fu il momento in cui decisi che sarebbe stata la mia vita. Ancora ricordo la smielatura (estrazione del miele prodotto dalle api), il momento più bello in cui si riuniva tutta la famiglia a lavorare. Era diventano un rito annuale”.
Grazie ai tuoi familiari è sbocciata questa tua passione. Ti hanno iniziato loro a questo mestiere, tramite le loro conoscenze ed esperienze, o hai dovuto imparare dalle basi?
“Passando da un semplice hobby a un lavoro, iniziai a frequentare corsi e affiancare apicoltori esperti della zona, che gentilmente mi passavano informazioni e trucchetti preziosi per allevare e gestire il fantastico insetto che è l’ape. Studiando e riempiendo di domande tutti gli apicoltori che conoscevo cominciai ad aumentare il numero di alveari. L’ultimo anno di superiori, i miei compagni di scuola si ricordano ancora di quando arrivavo in classe tutto gonfio per le punture ricevute il giorno prima”.

Emanuele Carubbi
Hai sempre pensato di volere rimanere a lavorare in montagna, o c’è stato un momento in cui saresti voluto partire?
“Mi considero fortunato a essere nato in un posto tanto ricco di umanità e bellezza, per questo ho sempre voluto fortemente rimanere nel “mio” meraviglioso mondo che è l’Appennino. Decidendo di affrontare la stressante fila in macchina per tornare a casa ogni giorno, credo sia già di per sé un piccolo, ma importante gesto, che dimostra di amare un territorio. Sarebbe più facile trasferirsi. Lavorando e vivendo qui, spero di fare la mia parte per sostenere la montagna”.
Quanto, nella tua professione, il territorio ti aiuta nell’andare avanti. C’è possibilità di crescita?
“Mi aiuta perché alzandomi tutte le mattine, guardando fuori dalla finestra, ho un quadro dipinto dal miglior pittore del mondo. Credo non avrei lo stesso entusiasmo se alzandomi vedessi altre case, altri grattacieli, altro grigio. C’è sempre la possibilità di crescere, in tutte le cose. Prima nel piccolo e nel privato, poi nella comunità”.

Motto dell’azienda “Agricola Appennino”
Che consiglio senti di dare a ragazzi che non hanno il coraggio di investire, di iniziare, pensando che i lavori manuali, tradizionali, umili non possano dare soddisfazione o lucro?
“L’apicoltura come tutte le professioni agricole richiede dedizione e sacrificio. Tralasciando gli investimenti economici per iniziare (attrezzatura da laboratorio, arnie, mezzo di trasporto ecc.), un requisito fondamentale è l’amore e la passione per queste attività. Non esistono cartellini da timbrare o ore da svolgere. Una giornata dura spesso anche più delle 8 ore lavorative ed è piena di punture. Spesso devo rinunciare a uscire e divertirmi con gli amici, perché come dico io: quando è stagione bisogna esserci! È un sacrificio”.
“Nonostante ciò – conclude – lo consiglierei, perché regala molte soddisfazioni. Vedere come le api si muovono nonostante tutto, nonostante noi, come si evolvono e trovano soluzioni ai cambiamenti climatici, è qualcosa di imprevedibile e meraviglioso. Passerei le giornate a osservarle entrare e uscire dalla porticina di casa piene di polline. È una danza meravigliosa piena di profumi e musica”.
“È una danza meravigliosa piena di profumi e musica”. Emanuele Carubbi racconta la sua grande passione, l’apicoltura
3 Apr 2019
Diario di viaggio. Berlino.
Nonostante sia già ritornata a casa da ben due lunghi giorni, sento ora il bisogno di ricordare questo meraviglioso viaggio, per riassaporarlo e comprenderlo, non più immersa in quel vortice di emozioni contrastanti, ma ora al riparo nella mia camera, ora posso lucidamente dare voce alla mia memoria.
Primo giorno. Martedì 28 febbraio.
Oggi a Sachsenhausen c’era molto freddo, pioggia e vento, quasi come se la natura ci volesse avvisare già all’ingresso delle atrocità che vi erano state compiute. Sul cancello la scritta ARBEIT MACHT FREI, come un cartello “attenti al cane”, invitava a non entrare. Mentre stavo in piedi nella piazza dell’appello, con il giaccone, la sciarpa di lana e i risvoltini, pensavo a quelle persone raccontate dalla guida, costrette a 14 ore in piedi, al freddo, con nessuna consolazione in un ritorno ad un albergo caldo, che invece aspettava noi di li a poche ore. Una domanda martellante ed insistente ricorreva nella mia mente: < ma come hanno fatto a resistere?>. Qui lo dico e qui lo nego, io avrei preferito spararmi piuttosto che sopportare tutto questo. Mi dimentico però che molti di loro avevano poco più di 14 anni. Come si può desiderare la morte quando hai un’età che grida speranza, quando non conosci ancora la bellezza della vita e la immagini solo, in un futuro perfetto, dove morte e ingiustizie sarebbero dovute cessare, dove il ricordo avrebbe dovuto impedire il ripetersi degli stessi errori. Invece questo non è bastato e la gente, tra selfie e freddure, ha dimenticato.
È proprio vero, quando entri in luoghi di profondo dolore, se stai in silenzio e tendi l’orecchio in ascolto, ancora lo percepisci quello che è accaduto. Non solo lo percepisci, ma lo provi fisicamente, ti viene quasi da vomitare mentre immagini tutta la sofferenza che è stata inflitta.
Il mondo fuori dalle mura però è sordo, non ha tempo di stare ad ascoltare i morti e per questo, con il suo rumore, li uccide per la seconda volta.
Mi avevano raccontato quindi, la potenza di questi luoghi, ma io, fino ad oggi, non ci avevo mai creduto.
Secondo giorno. Mercoledì 29 febbraio.
Devo ammettere di non ricordarmi proprio tutto di questa giornata, un po’ per la distrazione, un po’ per la stanchezza, un po’ per la guida non troppo coinvolgente. Oggi abbiamo fatto un percorso tutto all’italiana, siamo andati a vedere le baracche dove migliaia di soldati italiani sono stati deportati per diventare lavoratori coatti, ovvero schiavi. Durante il viaggio di andata ci hanno chiesto:< Se avreste potuto scegliere tra tornare a casa dalle vostre famiglie come soldato tedesco o rimanere integri nei vostri valori come deportati in Germania cosa avreste risposto?>. Nessuno sul pullman fiatò.
Quello che mi colpì in questa visita fu una scritta, incisa sul muro della cantina della baracca numero 13, usata come rifugio durante i bombardamenti: “ du bist meine und ich bin dein”. Scritta in un tedesco scorretto che ora non ricordo bene e significava, tu sei mia e io sono tuo. Mi ha sorpreso vedere quanta speranza infondevano queste singole parole e quanta forza ci sia voluta per dire NO, io non mi arruolo, non tradisco la mia patria, io resisto. Molti sono morti a causa della loro decisione, molti non sono più tornati ma questo è un pezzo di storia che non viene ricordato, come non fosse mai avvenuto.
I miei ricordi non finiscono qui, come non finì qui la nostra gita. Nei giorni a venire visitammo la città, questa grande metropoli che mi ricorda un vecchio saggio, di quelli dalla faccia stanca e vinta, che però suscitano rispetto e timore sui più giovani, che hanno visto poco e vissuto niente. Una città piena di storia, piena di gente, piena di vita, piena di contrasti per cui tu puoi decidere se amarla totalmente o disprezzarla. In ambo i casi verso di lei potrai provare solo emozioni forti.
Questo è quello che vale la pena di essere ricordato, non per la sua bellezza o per le emozioni che molto silenziosamente se ne andranno, ma come testimonianza di qualcosa che esisteva ed esiste, come monito, perché l’uomo è atroce.
27 Mar 2019
Ormai da qualche anno il numero di ragazzi che scelgono di proseguire gli studi è aumentato. Dei molti studenti che escono dall’istituto superiore di Castelnovo, la maggior parte decide di andare all’Università.
I più rimangono in regione: Parma, Reggio, Modena, Bologna, qualche eccezione sceglie Milano, Torino e Venezia.
Vi sono tanti motivi per cui scegliere un determinato ateneo: l’indirizzo di corso, il piano di studi, la reputazione dell’Università, la presenza di qualche amico, ma soprattutto la vicinanza a casa. Vivere lontano ha un costo che non tutti possono affrontare e vivere da soli non è così facile e spassoso come ci si aspetta.
Quasi nessuno dei ragazzi che conosco o con cui ho parlato possono considerarsi fuori sede, la maggior parte di noi fa la vita da pendolare, ogni weekend torna a casa a fare rifornimento di cibo e il cambio biancheria.
Nel gergo si dice “fare la settimana corta”, ma può essere altrimenti descritto come un limbo circolare in cui tu vivi un po’ di qua e un po’ di là, sempre con la valigia in mano, e non ti godi questo e neanche quello.
Per tanti il fine settimana è un’ancora di salvezza. Non ci sembra vero di tornare tra i monti, il mangiare pronto, la camera singola, le proprie comodità. Nessun posto è come casa propria. Il fatto è che abbiamo una casa anche a Bologna, Modena, Milano, ma non ci stiamo abbastanza a lungo da poterla sentire come tale.
Da cosa deriva questo bisogno morboso di tornare a casa? Me lo sono chiesta spesso dopo aver incontrato ragazzi provenienti dalla Sardegna, dalla Sicilia, dalla Campania e ascoltato storie di studenti extra-continentali, dal Brasile, dagli Stati Uniti.
Il primo anno è difficile, tutti hanno una voglia matta di rivedere parenti e amici e attendono con ansia le feste. Aria nuova, gente nuova, abitudini nuove, ma col tempo ci si abitua e si impara ad amare anche la città.
L’unica spiegazione che rimane, è che noi ragazzi di montagna la città facciamo proprio fatica a digerirla. A meno che non ci siano altri fattori che non abbiamo calcolato, qualcosa nel modo in cui siamo cresciuti, di cui nessuno a colpa, ma che è insito nella mentalità dei piccoli paesi.
Quando sei abituato a uscire di casa ed essere Beatrice Bramini, figlia di x e y, fidanzata con tizio e con la media del 9, ti senti quasi un nonnulla a passeggiare per Bologna, una faccia tra tante, figlia di boh e con la media del chissenefrega. Sembra tutto troppo grosso e abbiamo bisogno di tornare a casa per ridimensionarci.
Difficile spiegare in poche righe come mai quasi nessuno di noi ragazzi decide di tagliare il cordone ombelicale una volta per tutte, poiché nonostante la voglia di vedere gli amici, i famigliari, il cane, c’è qualcosa in più.
Forse non vogliamo rimanere indietro con i pettegolezzi…
(Beatrice Bramini)
27 Mar 2019
“Le persone ci dicono sempre di sperare che i giovani salveranno il mondo. Ma non sarà così. Semplicemente non c’è abbastanza tempo per aspettare che cresciamo e diventiamo quelli al potere.”
Inizia così il discorso tenuto da Greta Thunberg davanti al presidente della Commissione Europea Juncker.
La sedicenne svedese decise, l’agosto scorso, di saltare la scuola per andare a sedersi davanti alla sede del Parlamento di Stoccolma, chiedendo azioni immediate per far fronte alla crisi climatica in atto. Nel frattempo la sua popolarità è cresciuta portandola sul palco delle Nazioni Unite e di Davos.
Sola, con un cartello in mano, la giovane ha dato vita a un movimento mondiale chiamato “Giovani per il clima”, diffusosi via web.
Il suo esempio ha smosso milioni di studenti da tutto il mondo, che ancora una volta si riuniranno davanti ai municipi delle loro città venerdì 15 marzo, dalle 9 alle 13, per ricordare ai governi che esiste un patto a cui devono attenersi, gli accordi di Parigi sul clima.
“Abbiamo già tutte le informazioni e le soluzioni, dobbiamo solo svegliarci e darci da fare”.
Questo è quello che faremo, svegliarci, e se qualcuno ci dirà che la lezione è più importante, risponderemo che non ha senso studiare se per noi non ci sarà nessun futuro.
Ci restano undici anni per invertire la rotta, secondo un rapporto del comitato Onu sui cambiamenti climatici, altrimenti per la mia generazione sarà troppo tardi, stiamo finendo il tempo a disposizione.
Nel 2078 avrò 80 anni, e quando i miei nipoti mi chiederanno come mai non abbiamo fatto niente quando avremmo potuto, non avrò il coraggio di rispondere.
Si può fare la differenza anche in una piccola realtà come quella del nostro Appennino, perchè non si è mai troppo piccoli per fare qualcosa, come ci ricorda la giovane Greta.
“Stiamo sistemando il vostro caos e non ci fermeremo finché non avremo finito”.
(Beatrice Bramini)
27 Mar 2019
Venerdì 8 marzo 2019. Oggi si festeggiano le donne e in qualità di una di loro mi piacerebbe spendere due parole sulla questione di genere, che ultimamente sembra aver ritrovato il suo vecchio vigore, ripresentandosi come un problema sentito e largamente dibattuto.
Dall’hashtag Me too, lanciato da donne che hanno subito abusi, allo sciopero nazionale dei servizi, che oggi blocca trasporti, scuole e sanità, alle manifestazioni e ai cortei “rosa”.
Per il mondo, oggi è il giorno in cui si regalano mimose e si esce con le amiche. Il tempo ha, a poco a poco, cancellato il senso originario dell’istituzione di questa festa, lasciando dietro di sé solo il lato commerciale e culturale. Perché è usanza che gli uomini facciano sentire importanti le loro donne con una rosa prima e una mimosa poi.
Per altri, come per il movimento “Non una di meno”, il senso rimane quello di un tempo, lottare per i diritti delle donne.
La ricorrenza nasce come riconoscimento delle conquiste fatte dai movimenti femminili dai primi del Novecento fino all’incirca agli anni settanta, periodo in cui verrà riconosciuto l’8 marzo come data simbolica in tutti i paesi. Le donne si unirono per battersi contro lo sfruttamento sul posto di lavoro, la discriminazione sessuale e per il diritto di voto.
Il 1970 è infatti considerato l’anno zero del movimento delle donne in Europa. Per molti e per la storia i movimenti del 68 costituirono un cambiamento culturale forte, una rivoluzione nella rivoluzione. C’era chi lottava contro i poteri forti, la rivolta contro il padre, padrone e patriarca e chi invece lottava per la rivalutazione della madre.
Per altri il 68 fu l’inizio di un lento sgretolarsi dei vecchi valori, dei quali la donna era il fulcro, il focolaio, quali la famiglia. Accusano il 68 di aver creato una figura femminile aggressiva, autoritaria, assetata di riscatto e alla continua ricerca di prove della sua superiorità. Una donna che spaventa l’uomo, che non vuole figli, che non scende a compromessi, che ce la può fare da sola.
Nel 2019 in Italia si può abortire, divorziare, studiare, lavorare, mantenersi da sole, decidere di non sposarsi, ma anche di come vestirsi e di uscire non accompagnate. Le donne nate con tutto questo lo danno per scontato e non potranno mai sentir proprie le cause che hanno mosso le prime femministe.
Come studentessa non mi è mai capitato di sentirmi inferiore per cause sessuali. L’università, ma soprattutto la scuola in generale, penso si possa dire libera da ogni sorta di discriminazione. Anzi alcune statistiche indicano come le ragazze abbiano, tendenzialmente, una media più alta dei loro coetanei e un percorso scolastico più pulito. Per molti di noi quindi il problema non sussiste, poiché non lo hanno mai toccato con mano.
Il fatto che non percepiamo il problema non significa che sia stato risolto. Nonostante gli sforzi di chi ci ha preceduto non siano stati vani, a poco a poco le differenze di genere si sono assottigliate fino a nascondersi in pieghe culturali impercettibili, consuetudini che mai potremmo concepire come segni di disuguaglianza.
Un esempio: ormai da qualche mese sul portale online dell’ateneo di Bologna, accanto al nome di ogni professore, è stato aggiunto l’equivalente femminile “professoressa”. L’Università di Bologna è stata la prima. Le maggiori contestazioni sono arrivate proprio dalle donne, che dopo tanti anni si sono ormai abituate all’appellativo di professore e vedono nel femminile una sorta di diminutivo, come andasse a sminuire la loro professionalità.
Eroe – eroina, gallo – gallina, zar – zarina. D’altra parte la lingua italiana per alcune parole utilizza il diminutivo per formare il femminile.
Quest’esagerata attenzione per la lingua italiana, che porta alcuni a forzature come sindaca, ministra e ingegnera infastidisce molti, che non vedono necessario un cambiamento di prospettiva. Il genere maschile è preso come riferimento per rappresentare la donna, punto e stop.
Altri credono invece sia proprio dal linguaggio che bisogna partire, per poter realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna. Sempre più spesso, entrando in aula, i professori tendono a salutare “Buongiorno ragazzi e ragazze”.
Queste sono le nuove battaglie, e voi cosa ne pensate?
Beatrice Bramini
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